lunedì 17 maggio 2010

Si fa presto a dire “passato” (di verdura)


Si fa presto a dire “passato” (di verdura), storcendo magari il naso, come se si trattasse di una preparazione necessariamente ancillare. E sicuramente è tale se nato da minestroni spazzafrigorifero, preparati senza tante pretese. È che un “passato” deve fondarsi su un equilibrio di sapori, e non sulla casualità. Per esempi la nota vivace del porro e quella quasi piccante della melanzana vanno attutite dal sapore diluente della patata, quella amarognola erbacea del carciofo si può bilanciare, in base alla stagione, con la dolcezza della mela, della zucca o della carota, cui si possono unire altri ingredienti non solo per completare il gusto, ma per introdurre altre consistenze come la melanzana e il carciofo trifolati separatamente, cui si uniscono la croccantezza del bacon saltato in padella, la fragile durezza degli anacardi, e le note sapide, distribuite qua e là, delle uova di salmone. La “panna” è vegetale.

martedì 20 aprile 2010

Pasticcini…di mare


Mi piace l’idea di tanti bocconcini che, come pasticcini mignon, trastullino il gusto, accompagnati da una flute di spumante o di Champagne. Sapori di mare, che riprendono la forma dei maki, ma solo in parte gli ingredienti. In luogo dell’alga nori, un anello di pasta contiene la preparazione, che, essendo un cereale, sostituisce il riso; la farcitura è costituita da tartare di salmone. I pasticci vanno completati con la ciliegina, ossia una guarnizione, che può essere la più disparata: scampetti, uova di salmone, caviale, bottarga, ricci di mare, calamaretti, seppia, tartufi di mare, uova di mare…. Si possono preparare più tartare (salmone, ricciola, orata) così da differenziare i vari bocconcini, oppure una mista. Io condisco la tartare utilizzando un po’ di vasabi che sostituisce la senape della tartare di carne, al posto dei capperi utilizzo lo zenzero e sostituisco il sale con salsa di soia chiara. La portata rappresenta un antipasto a condizione che non siano serviti primi piatti di pasta o di riso, oppure costituisce un primo piatto fresco. I pasticcini si possono inoltre servire con plateau di frutti di mare e sashimi, oltre che sushi, ovviamente.

sabato 10 aprile 2010

Calamarata



I calamari li preferisco praticamente a quasi tutti i pesci, e tengono testa ai gamberi rossi di San Remo e di Sicilia, oltre che agli scampi, per parlare di prodotti di una fascia di prezzo simile. Ho un però memoria di una vacanza pugliese: un pescatore portava una cassa di calamaretti appena pescati; ne mangiai una mezza dozzina così al naturale, togliendo solo il gladio. Però i calamaretti sono un’altra storia… adesso voglio parlare di calamari. Ma volendoli gustare al ristorante, non c’è molta scelta: fritti e poi come? non mi ricordo neppure tanto rare sono le proposte, quantomeno a Milano.. Allora ho dovuto provvedere, e ho preparato un piatto con i calamari trattati in vari modi. Ho acquistato calamari enormi, per cui dotati di sacche spesse come quelle delle seppie. Poi, dopo averli accuratamente puliti tenendo a parte le vesciche dell’inchiostro, li ho così elaborati:
crudo. La sacca affettata sottile, marinata per 30 minuti in aceto di riso, quindi condita con salsa di pomodoro fatta restringere, preparata piccante con peperoncino e leggermente dolcificata, servita con alga wakame e semi di sesamo tostati;
in umido di pomodoro. La sacca tagliata a grosse fette, insaporita con i tentacoli in un soffritto di olio evo e scalogno, quindi portata a cottura con pomodoro fresco.
al nero. Come l’umido, ma con aggiunta di inchiostro anziché di pomodoro.
allo zafferano. Sacca tagliata a pezzi, quindi spadellata con olio evo e aglio, infine aromatizzata con zafferano.
al forno. Sacca aperta, impanata e passata al forno.
al vapore. Sacca tagliata a grossi anelli, cotta al vapore e condita con olio evo.
Non ci stava nel piatto ma una pezzo di sacca l’ho cotta al forno senza aprirla, quindi l’ho incisa nel senso della lunghezza e condita con aceto e pepe nero.
Ho inoltre variato i tempi di cottura, in modo da ottenere consistenze diverse; la più tenera si è rilevata la sacca cotta al forno senza aprirla. Le foto, fatte senza flash, non sono molto belle, ma lasciano intuire come fossero i calamari.

venerdì 5 marzo 2010

riso risotto


Considero il risotto un piatto di grande valore gastronomico. Non lo preparo spesso, però quando ne ho voglia… non vado al ristorante perché so che lì non lo troverei come voglio io. Per cui mi rimbocco le maniche e mi metto ai fornelli. Quello qui fotografato, per esempio, l’ho preparato qualche settimana fa, ma non mi decidevo a postarlo perché l’ingrediente che fa la differenza… mi ero dimenticato di aggiungerlo al piatto e quando me ne sono accorto, il risotto non era più… da macchina fotografica. Si trattava di una bisque concentrata, sciropposa, preparata con i carapaci degli scampi, legata con burro, da far colare a filo sul riso. Il resto… si tratta di un riso al nero di seppia contornato da uno allo zafferano preparato con fumetto di pesce. Dadolate di melanzana e di carciofo, cappesante e code di scampi saltate, pesce spada spadellato completano la portata. Il piatto l’ho preparato cucinando a parte la cipolla; ho tostato il riso nella casseruola per un minuto, poi l’ho portato a cottura con il brodo. Una preparazione simile l’avevo preparata impiattandola in un altro modo. Ho messo il riso e seppia in una ciotola, solo pochi cucchiai, poi l’ho coperto con quello allo zafferano preparato in quell’occasione con fumetto di crostacei. Per cui sembrava una ciotola di riso giallo, ma scavando…



di Fabiano Guatteri

mercoledì 10 febbraio 2010

ma l'aragosta...cruda

Un settembre ero a Panarea, nelle Eolie. Accompagnavo spesso Tanino, un pescatore che all’alba partiva con la sua piccola barca dal porticciolo dell’isola. Quando eravamo nei pressi di un isolotto disabitato, dove in alcuni mesi dell’anno venivano portate su barconi le pecore a pascolare, mi tuffavo e cominciavo la mia piccola battuta di caccia subacquea in apnea. Il mare era pescoso e con un po’ di fortuna riuscivo a catturare una cernia mentre Tanino disponeva le reti. In quelle lunghe mattine di sole mi raccontò la storia dell’isola e le leggende in cui si parla di apparizioni demoniache, dei parenti emigrati in Australia e della sua vita. Io lo ascoltavo e lo sentivo amico. Guardavo le sue mani indurite dal lavoro e dalla salsedine, il suo viso giovane già segnato dalle rughe, pensavo a sua moglie che era bella, ma che non sorrideva mai. L’ultima settimana di permanenza nell’isola uscivo con lui tutte le mattine; sino all’ultimo giorno dovetti insistere per fargli accettare il pesce che riuscivo a cacciare e, regolarmente, egli cercava di sdebitarsi invitandomi a pranzo (furono le ultime battute, perché sono diventato contrario alla caccia). L’ultimo giorno mi disse che non potevo declinare il suo invito perché sua moglie mi aveva preparato una specialità. Ricordo ancora quegli spaghetti alla Norma (piatto catanese dedicato a Bellini, diffuso in molte province siciliane), con il sugo fatto con i pomodorini appesi a grappolo alle pareti bianche della casa per farli asciugare e le melanzane fritte, il generoso vino bianco e, soprattutto, la gustosa aragosta che venne cucinata in mio onore. Trovavo commovente tanta premura e cercai, a mia volta, di onorare i miei ospiti non esitando a servirmi di quelle carni bianche e gustose dal sentore di mare, di scoglio e dal sapore gradevolmente dolce. Pranzammo all’ombra di un pergolato e di fronte a noi l’azzurro intenso del mare rifletteva i bagliori dei raggi che cadevano a picco. Il panorama, l’emozione, la circostanza fecero di quel frutto del mare uno dei più gustosi tra quelli che, sino a oggi, ho potuto gustare. Però il mio modo preferito di gustare l’aragosta è cruda. Separo, servendomi di un coltello, la testa dalla coda; taglio il carapace di quest’ultima da entrambe le parti, estraggo la polpa, la privo del filo intestinale e la immergo in acqua ghiacciata lasciandovela 10 minuti. Poi la asciugo e la taglio a fettine spesse 3-4 millimetri e la condisco con un filo di olio evo, oppure servo a parte salsa di soia al wasabi.

venerdì 5 febbraio 2010

Carbonara di mare


Un giorno in un piccolo ristorante, dalla piccola cucina, che però si ritiene un grande ristorante dalla grande cucina (e si atteggia in tal senso) ordinai una carbonara di mare. La carbonara, in qualsiasi versione, è un piatto che solo a vederlo comunica un senso di buonumore perché il giallo, che è la nota dominate, in cromoterapia è il colore dell’allegria. Quando vidi arrivare un piatto grigiastro non sapevo di non avere ancora toccato il fondo. Il grigiore era dato da miseri tocchetti di pesce spada affumicato che conferivano un aspetto desolante a quella modesta portata che avrebbe depresso anche un ottimista per vocazione. Ma il peggio arrivò all’assaggio. Il piccolo chef aveva, da scriteriato, fatto saltare in padella il pesce spada come fosse pancetta, dimentico che così trattando un pesce affumicato, questo diventa particolarmente salato, “aringoso”, secco, soprattutto se affumicato a freddo (come far cuocere un caviale non pastorizzato). Allora capii che non bisogna mai delegare neanche in cucina. Per cui da allora la carbonara di mare la mangio solo in privato. In pratica, come quella terragna, la preparo con i soli tuorli, elimino il formaggio, avvolgo con fette sottili di pancetta una noce di cappesanta e qualche gambero o scampo, facendoli saltare in padella sin quando la copertura è croccante; nella stessa padella faccio saltare altri crostacei e cappesante senza copertura, e completo la preparazione con pancetta croccante a cubetti o a fettine. Il piatto è pronto. In quello fotografato, forse per esorcizzare la povertà desolata che aveva lasciato in me quella portata ancillare, ho aggiunto eccezionalmente una “calamarata” e semi di sesamo. Alla carbonara di mare abbino il superbo Oltrepò Pavese Metodo Classico Riserva del Poeta, da uve pinot nero e chardonnay.


di Fabiano Guatteri

sabato 30 gennaio 2010

I salmoni del Mayo. Appunti di viaggio


Era mattina presto, il cielo era livido, camminavo sul ponte di Galway quando sentii alle mie spalle il galoppo di un cavallo. Lo vidi arrivare senza cavaliere, libero e felice, mi superò e scomparve dietro la grande curva. I ragazzi che pescavano dal ponte non ci fecero caso, quasi che a Galway fosse una consuetudine vedere cavalli attraversare da soli la città. Ma il Connemara, la regione irlandese che stavo percorrendo, non aveva ancora smesse di stupirmi. La piccola nave che mi portò alle isole Aran mi sembrava appena uscita da un fumetto per bambini, con il suo ingenuo fumaiolo quasi come quello di una locomotiva a vapore. Alle isole Aran vi sono molte case con il tetto di paglia, e la fiaba continuava tra i calessi old fashion style che passeggiavano tranquilli e quelle piccole case in cui si entra per bere una tazza di tè accompagnata da una crostata di uva spina o di rabarbaro. Viaggiando più a nord, immortalando il mare di Clifden nelle mie intenzioni, arrivai nel Mayo, la regione il cui mare pare sia particolarmente ricco di saporitissimi Salmo salar. A Newport, dopo la stereotipata galopppata a cavallo sulla spiaggia giusto al tramonto, in un piccolo ristorante dall’eleganza discreta, non ostentata, ma presente, provai un trancio di salmone cotto il minimo indispensabile nel forno che non mi permise, per via della sua delicatezza, di bere la mia solita amara Guinness alla spina; ne valse però la pena. Il salmone, se selvaggio, cioè non di allevamento, è sodo senza però essere asciutto. Il colore rosa tendente al rosso anticipa la successive percezioni sensoriali preannunciandole più marcate rispetto ai salmoni di allevamento. La carne è consistente, soda. . L’aroma non invadente, dolce, con ricordi di alga saprà catturare con molta discrezione l’attenzione del buongustaio. Il sapore è marcato e in alcuni esemplari è equiparabile per intensità, sia pur con gusto diverso, al tonno; è convincente, dignitoso, meno dolce e più sapido rispetto agli esemplari di allevamento ed è da gustare sia cotto, sia crudo. L’aroma diventa, ovviamente, più incisivo se il pesce è affumicato, e anche in questo caso vi sono differenze tra salmone allevato e salmone selvaggio. In Irlanda ottimi salmoni si trovano con relativa facilità. Ricordo ancora i breakfast di Westport a base di uova al burro e salmone affumicato quanto basta. Qualche anno dopo mi trovavo a Mallaig, nella Scozia occidentale, e guardando il mare mi tornò alla mente la spiaggia di Clifden, le carcasse nere delle barche abbandonate, il canto dei gabbiani e la distesa grigia dell’oceano. Nel porticciolo di Mallaig, seduto sopra una rete da pesca arrotolata, aspettavo di partire per l’isola di Skye, una tra le più suggestive delle Isole Ebridi. Il freddo mi convinse ad accettare l’ospitalità del piccolo pub che aveva l’orario dei battelli esposto in vetrina come se fosse un menu degustazione.
Mi proposero un pesce affumicato, un’aringa tenera come il burro, detta kipper (da to kipper, affumicare; termine generico che vale anche per altri pesci), sicuramente superiore a molti salmoni in commercio, ma pur sempre un’aringa, umile ancella del re dei fiordi che anche in Scozia trovai eccellente.

giovedì 28 gennaio 2010

genesi e ricette della cotoletta alla milanese

Cotoletta alla milanese
La cotoletta alla milanese, preparata con la costoletta di vitello, ossia una delle prime sei costole della lombata, alta almeno un centimetro e mezzo, era tradizionalmente cucinata in modo che la panatura formasse una crosticina croccante, mentre la sezione più interna della carne risultava se non leggermente rosata, quanto meno umida. Era abitudine servire la cotoletta condita con il burro di cottura, anche se questa consuetudine non sempre era indicata nei ricettari (vedi ricetta “La cotoletta di una volta”). Sull’origine del piatto non ci sono dubbi. È pur vero che è stato ipotizzato che la preparazione potesse essere stata importata al tempo della dominazione asburgica, considerato che la Wienerscnitzel, ossia la cotoletta viennese è molto simile (la carne viene però prima passata nella farina, poi nell’uovo e nel pangrattato). Ma la prova della milanesità del piatto è data da un testimone al di sopra di ogni sospetto, ossia dal maresciallo austriaco il conte Joseph Radetzky. Questi, in un carteggio con il conte Attems (aiutante di campo di Francesco Giuseppe), scrisse di aver scoperto un piatto milanese, ossia la cotoletta, descrivendola in modo circostanziato così da togliere qualsiasi dubbio interpretativo. Oggi la cotoletta, battuta o no, è preparata utilizzando meno grassi e risulta pertanto più leggera; in genere è guarnita con spicchi di limone proprio come solitamente si servono i fritti. È inoltre molto diffusa anche la variante a “orecchio d’elefante”, in realtà due costolette unite nel centro aperte a libro, battuta per assottigliarla a uno spessore di pochi millimetri: una volta cucinata è particolarmente croccante, con la parte interna della carne ben cotta. È servita spesso guarnita in superficie con pomodoro tagliato a dadini che, essendo questo un ortaggio notoriamente acido, sostituisce il limone in qualità di antagonista dei grassi di frittura residui. Da segnalare la cotoletta “puzzle” di Gualtiero Marchesi: più spessa di come vuole la tradizione, è tagliata a quadrati che sono impanati e fritti nel burro chiarificato; la cotoletta è poi ricomposta e ogni boccone, ossia ciascun quadrato, è ricoperto di una crosticina croccante su ognuno dei sei lati (vedi ricetta).

La cotoletta di una volta
Prendasi una costoletta di vitello o nodino che abbia il suo osso attaccato, altrimenti sarebbe almeno esagerato e fuori luogo chiamarla costoletta...
Si scelga né troppo grassa né troppo magra, ma più sul magro che sul grasso. La si stenda sul tagliere e col pestacarne si cominci a tormentarla dolcemente di modo che le fibrille della carne non si spappolino, ma si rompano. Quando questa operazione che può anche durare una ventina di minuti è finita, la costoletta viene fatta passare in uovo battuto, poi in pane grattugiato. Anche questa operazione va ripetuta almeno due volte per garantire una impanatura perfetta e regolare. Sul fuoco si sarà nel frattempo messo a sciogliere un grosso pezzo di butirro e poco olio di oliva finissimo, in modo da giungere alla bollitura. In esso si faranno passare le costolette che debbono, per essere mangiabili e perfette, risultare dorate in ogni loro parte. Prima di portarle in tavola, le costolette vanno finite, cioè bisogna coprire i 'manici' di ciascuna con un decoro di carta.
La ricetta, che risale all’Ottocento, è stata tratta da Carlo Steiner, Il ghiottone lombardo, Milano, Bramante, 1964




Cotoletta alla milanese (oggi)
Ingredienti per 4 persone
4 cotolette di vitello con l’osso
2 uova
pangrattato
burro

Battete leggermente le cotolette (molti cultori ritengono però che non vadano battute). Sgusciate le uova in una terrina, salatele leggermente e sbattetele con una frusta. Passate le cotolette nelle uova e poi nel pangrattato premendole con il palmo della mano.
Fate fondere il burro in una larga padella antiaderente e quando sarà ben caldo disponetevi le cotolette senza sovrapporle e fatele cuocere 5 minuti per parte. Sgocciolatele con l’apposita paletta, insaporite di sale e servitele calde.


Versione puzzle
Dosi per 4 persone
4 costolette di vitello molto spesse
30 g di burro chiarificato
120 g di mollica di pancarrè privato della crosta
2 uova
sale e pepe bianco

Passate il pancarrè in un setaccio a trama larga. Sgusciate le uova in un piatto fondo e battetele con una forchetta. Tagliate le costolette a dadi e passate questi (e anche gli ossi) nell'uovo, quindi nel pane setacciato. In una padella, scaldate il burro e salatelo, unite i dadini carne e fateli cuocere per 6 minuti calcolando 2 minuti per ogni lato. Ricomponete nei piatti le costolette comprensive di osso e servitele caldissime.

Il burro chiarificato si ottiene mettendo un panetto di burro (in questo caso circa di 100 g) in un recipiente a bagnomaria lasciandolo cuocere ore in modo che tutta l’acqua evapori e la caseina si depositi sul fondo. Si ricava così un grasso fluido simile all’olio, di colore dorato, in grado di sopportare alte temperature, al contrario del burro, che è un grasso instabile.

domenica 24 gennaio 2010

e per cena un unico piatto


Mi piacciono i piatti unici, perché in una sola portata trovo numerosi ingredienti e posso passare dall’uno all’altro, indugiare su una preparazione e sorvolare su un’altra. Per piatto unico intendo una portata costituita da un amido e da una proteina, entrambi presenti in modo significativo. Ultimamente ho preparato un piatto unico ispirandomi al mare. In genere preferisco utilizzare prodotti stagionali, ma questa volta ho fatto un’eccezione, ossia facendo la spesa non ho resistito davanti a un mazzetto di asparagi, che ho acquistato e messo nel piatto che vi presento.
Ho preparato un risotto facendo tostare il riso in poco burro e l’ho portato a cottura unendo gradatamente brodo di pesce bollente. A parte ho fatto appassire 2 scalogni sino a ridurli in crema unendo qualche asparago tagliato verso fine cottura (prima i gambi, poi le punte) bagnandoli con poco brodo. Ho bollito qualche asparago intero. Ho fatto saltare in una padella con poco burro scampi, cappesante, quindi vi ho insaporito gli asparagi bolliti. Ho fatto bollire per 8 secondi un pezzo di filetto di salmone, l’ho passato in acqua ghiacciata (acqua più ghiaccio), l’ho asciugato, affettato e leggermente salato. Ho unito al riso lo scalogno con gli asparagi a tronchetti al momento di spegnere la fiamma, ho mescolato, quindi ho distribuito il riso nei piatti, vi ho disposto sopra tutti gli altri ingredienti e ho servito. Ho stappato un elegante Franciacorta Parosé il Mosnel.



di Fabiano Guatteri

venerdì 22 gennaio 2010

La crosticina dell'arrosto...tra superstizione e scienza

Leggendo un testo di scuola di cucina sugli arrosti, mi sono chiesto se l’ABC delle tecniche culinare, quantomeno in Italia, non sia rimasto fermo a qualche secolo fa.

A prescindere dai cuochi innovativi, parlando delle pratiche culinarie casalinghe o di una ristorazione più tradizionalista, a quale epoca siamo rimasti?

Un esempio: l’arrosto, piatto cardine della nostra cultura. Leggo che prima di infornarlo va rosolato per costruire la “costricina” necessaria perché i succhi non fuoriescano.

Ma la teoria secondo cui il riscaldamento a fuoco vivo restringe i pori della carne, creando una specie di corazza esterna che impedirebbe ai sughi di uscire è scientificamente scorretta. La crosticina aumenta il sapore, ma non la succulenza.
Cio perché, scusatemi il pippone:
Come reagisce dal punto di vista chimico fisico un pezzo di carne quando viene riscaldato? Il calore entra nell'arrosto per conduzione mediante l'aria riscaldata del forno e l'acqua del suo strato esterno evapora, rendendo questo ultimo asciutto.

Il risultato finale è che, con una cottura tradizionale l'arrosto si restringe fino a perdere un sesto del suo peso in seguito alla perdita dell'acqua periferica e della fuoriuscita del sugo, e ciò accade anche se la carne è provvista di crosticina, provocata dalla rosolatura, non essendo quest’ultima impermeabile.

Cosa comporta la crosticina? È innanzitutto scorretto ritenere che sia l’effetto di un processo di caramellizzazione solo perché l’alimento si scurisce. Invece il colore brunastro è causato dalla reazione di Maillard fra amminoacidi e carboidrati e a molte altre reazioni: basta pensare ai tanti gruppi reattivi presenti nelle molecole della carne da arrostire e alle loro possibili reazioni!

La teoria secondo cui il riscaldamento a fuoco vivo restringe i pori della carne, creando una specie di corazza esterna che impedirebbe ai sughi di uscire è pertanto scientificamente scorretta. Quindi la crosticina aumenta il sapore, ma non la succulenza.

sabato 16 gennaio 2010

Ostriche indimenticabili. Appunti di viaggio

Nonostante fosse marzo il vento era molto freddo e il mare, grigio, diventava in alcuni momenti particolarmente minaccioso. Quel giorno, mi dissero, nessuna barca era uscita dal porticciolo di Saint-Malo. Eppure c’era allegria nell’aria e quando mi fermai davanti al tavolaccio di legno costituito da due rudimentali cavalletti e da un’asse che ricordava una vecchia porta, che reggeva casse e ceste di ostriche, un signore con un cappello di lana calcato sulla testa sino a coprirgli le orecchie, mi tese, con la mano livida per il freddo, un’ostrica vibrante nel mare del suo guscio concavo. Lo guardai, cercai tra le tante conchiglie una fettina di limone, ma il Monsieur sembrò capire le mie intenzioni e, presa una piccola bottiglia tappata con sughero da cui usciva un’esile cannuccia , irrorò l’ostrica. Io la portai diligentemente alla bocca e mi trovai a chiudere gli occhi istintivamente. Fu come sentire in me il mare, io piccolo contenitore capace di accogliere l’infinito. Chiusi gli occhi perché nessun’altra sensazione potesse distrarmi, e addentando il frutto di mare una nuova onda si infranse sui miei molari, quasi fossero scogli. Quando mi ripresi, l’ostricaro mi mostrò il suo sorriso e agitò la bottiglietta, che originariamente doveva essere di un succo di frutta, e solo allora percepii il colore vinoso del contenuto. Sì, era sicuramente aceto. “Oui Monsieur, mais a l’echalote”.
Da allora, quando ho il piacere di fronteggiare un plateau di ostriche adagiate sopra uno strato di ghiaccio tritato e coperto di alghe, non faccio mai mancare una piccola ciotola di aceto di vino rosso con scalogno finemente affettato cui unisco pepe nero macinato al momento con cui condisco, servendomi di un cucchiaino, Belon, Cancale, Zelande, Armorique e ciò che di meglio posso trovare in quei da me prediletti ristorantini accoglienti ed eleganti che da Saint André des Arts a Saint Germain caratterizzano la rive gauche parigina.
Le ostriche che degustai alla bancarella di Saint-Malo erano le spéciales de claires.

lunedì 11 gennaio 2010

crudité

Venerdì sera ero a cena da una mia amica. Mi aveva chiesto se potevo un antipasto di pesce crudo che poi ha fotografato.
Ora mi ha mandato la foto

Si tratta di sacche di calamaretti molto piccoli, tagliate ad anelli sottili, condite con pochissimo concentrato di pomodoro diluito con qualche goccia di mirin, di aceto di riso e di olio evo; nel centro una rosa di salmone farcita con tartare di salmone con cipolla sott'aceto, wasabi, salsa di soia, olio evo, cosparsa di bottarga di muggine. Infine un battuto di scampi con alga wakame, pochissimo sale e olio evo. Freddo di frigorifero accompagnato con spumante metodo classico.

mercoledì 6 gennaio 2010

Menu 2 (i vini)

Per completate il post sul menu, va detto qualcosa sui vini, considerato che anch’essi, come i piatti, non vanno serviti casualmente
Ciò perché un buon banchetto richiede altrettanto buoni vini.
C’è chi dice che il vino vale metà pasto e pertanto se non è presente, o se non è all’altezza, pregiudica il buon esito dell’evento.
Va detto che un tempo, l’associazione vino cibo era assolutamente casuale. Il vino, almeno in Italia, “viaggiava” poco. I produttori lo vendevano sfuso e andava a soddisfare il mercato locale. Pertanto se in una zona si produceva vino rosso, questo accompagnava tutti i cibi che arrivavano a tavola. Più che un abbinamento, il vino rappresentava un alimento energetico che completava il pasto. Successivamente, ossia a partire dalla fine degli anni sessanta, e, con il passare del tempo in modo sempre più evidente, la maggiore offerta di vino, il sempre più ampio repertorio di etichette reperibili, hanno portato a scegliere il vino in base quello che si porta a tavola. Ma prima l’abbinamento eno-gastronomico non era ancora nella nostra cultura. I camerieri chiedevano agli avventori “bianco o rosso?” prima ancora che questi avessero scelto che cosa ordinare. Vi era sì una regola, molto generica, per cui il vino bianco si serviva con il pesce, mentre il rosso con le carni, ma questo stereotipo attualmente non è più un assioma in quanto è stato superato . Infatti vi sono vini bianchi che si abbinano meglio dei rossi ad alcune carni e, per contro, vini rossi ottimi con il pesce.

Uno dei parametri base dell’abbinamento è la struttura. Semplificando la struttura di un cibo è data dalla sua natura (verdura, pesce, carne) e dal tipo di cottura cui è sottoposto (bollito, brasato, arrosto). Nel caso del vino la natura è data dalle uve (bianche, nere, grigie), dalla vinificazione (in banco, in rosso, in rosa) e dall’invecchiamento. Esattamente come un taglio di carne cuocendo si disidrata e si insaporisce, nello stesso modo un vino con l’invecchiamento si concentra aumentando di corposità. Quindi un vino che nasce da un’uva generosa come una a bacca nera ricca di zuccheri e invecchiato un decennio, bene accompagnerà una carne, poniamo di manzo, lasciata stufare molte ore. Si tratta cioè di abbinamenti per similitudine di struttura.

A questa regola se ne aggiungono altre
Il vino, in alcuni casi, deve avere un sapore contrastante rispetto al cibo per equilibrarne il sapore . Per esempio le preparazioni di fegato e derivati (pâtè) sono connotate da un caratteristico gusto amarognolo che risulta persistere anche dopo aver inghiottito il cibo. Questa nota amarognola armonizza con un vino di sapore, sia pur non esageratamente, dolce. Formaggi che nel corso dell’affinamento hanno assunto gusto piccante, per l’insorgenza di muffe o per il prolungato invecchiamento, come per esempio i Gorgonzola piccanti, i Roquefort e in genere i Bleu del Midi francese oltre che alcuni pecorini o grana, bene equilibrano le proprie note acute con un vino amabile, l’unico capace a ingentilirle.
Vi sono cibi considerati salati, ma con una componente dolce, che richiedono vini abboccati o morbidi. Abboccati sono vini che hanno residui zuccherini sia pur minimi, ma percettibili, mentre i vini morbidi sono quelli ricchi di glicerina, ossia un alcol che comunica un sapore vagamente dolce, di grande piacevolezza, pur non contenendo zuccheri in quantità percettibile. Gli gnocchi di zucca, sono un cibo salato e dolce al tempo stesso cui si può associare un vino abboccato, ossia al primo grado di dolcezza; lo stesso vino potremmo abbinarlo alla peperonata. Anche i crostacei hanno sapore vagamente dolce e bene si valorizzano se abbinati a vini binchi morbidi, ossia ricchi di glicerina.
Volendo sintetizzare, gli abbinamenti possono basarsi su:
accostamenti tradizionali tra vini e prodotti tipici dello stesso territorio;
contrasto di sapori, per esempio a cibi amarognoli come i derivati del fegato, vini abboccati o amabili;
concordanza di sapori, come pasticceria e vini amabili e dolci;
similitudine di struttura, cioè a un piatto di carne corposo come il brasato, un vino rosso ben strutturato come il Barolo o per contro a un piatto di pesce delicato, un vino a sua volta gentile come il Vermentino di Sardegna.
Se il menu (vedi Menu) è composto da piatti con caratteristiche comuni, per esempio a base di pesce, si può servire un solo vino come quello bianco; nel caso di piatti leggeri e corposi, in genere di pesce e di carne, servirà per ciascuna portata il vino più adeguato. Con piatti di carne di diversa corposità si potrà servire lo stesso vino di annate diverse.
Abbinamenti indicativi
Vini bianchi leggeri
Antipasti: carpacci di pesce.
Primi paste e risi all'ortolana, all' aglio e olio, alle zucchine trifolate, alle vongole, al burro e formaggio, creme di verdure, minestre di verdura
Secondi verdure bollite, al forno con ripieno di magro, pesci bolliti e al forno, nasello bollito.
Formaggi freschi come mozzarella, ricotta.
Vini bianchi in genere e rosati leggeri (entro 11 gradi alcolici)
Antipasti di mare saporiti come sashimi di tonno, frutti di mare crudi e cotti, salumi
Primi piatti con sughi di pesce in umido, zuppa di pesce, pasta al pesto, ravioli di magro, risotto con fegatini.
Secondi pesci in umido, al cartoccio o in forno, verdure in umido, cozze, cappesante gratinate, calamari o e seppie ripieni, polpo affogato
Formaggi a pasta molle di media stagionatura

Vini bianchi corposi (riserva, invecchiati in piccole botti), rosati, vini rossi leggeri (entro 11 gradi)
Carpaccio di manzo, tagliata di tonno, terrine di cacciagione da pelo, salamelle
Primi piatti o risi conditi con ragoût di mare, pappardelle con ragoût di coniglio, ravioli di carne bianca, risotto con salsiccia
Secondi carni bianche bollite o alla piastra, roast-beef di manzo, anguilla alla brace o in umido, baccalà in umido.
Formaggi stagionati

Vini rossi di medio corpo (11-12 gradi)
Antipasti come terrine di cacciagione a pelo, pasticci di carne
Primi piatti come ravioli di carne rossa, tagliolini al ragù bolognese, lasagne al forno, pasta con sugo di brasato, primi piatti con ragoût di selvaggina a piuma
Secondi piatti come carni rosse alla brace o bollite, carni bianche in umido faraona al forno,
Formaggi a pasta semidura o dura stagionati

Vini rossi di buon corpo (12-13 gradi)
Primi piatti con sughi di selvaggina come tagliolini al sugo di capriolo, pappardelle al ragoût di cinghiale
Secondi piatti come carni rosse stufate come brasato di manzo al vino rosso, stufato di manzo o di oca, cacciagione da piuma in casseruola
Formaggi a pasta semidura o dura molto stagionati

Vini rossi molto corposi, lungamente invecchiati ( oltre 13 gradi)
Secondi piatti di selvaggina a pelo (lepre, cinghiale, capriolo, cervo), stufati, in salmì, in civet .
Formaggi a pasta dura extra vecchi

Spumanti secchi
Secondo la corposità vedere le categorie precedenti; inoltre fritti, gratinati, risi o paste al salto, salamelle, nervetti, bottaggio di maiale e d’oca

Spumanti dolci
Pasticceria, dolci preferibilmente non lievitati.

Vini abboccati, ossia di dolcezza appena avvertibile
Gnocchi e tortelli di zucca, peperonata, crostacei, fegato con cipolle

Vini amabili non eccessivamente zuccherini
Formaggi erborinati come il Roquefort, patè di fegato

Vini dolci
Pasticceria; se spumanti dessert meglio se non lievitati


di Fabiano Guatteri

lunedì 4 gennaio 2010

gravad laks

Cari amici del blog,
ho ricevuto 5 richieste di ricetta del gravad laks. Vi ringrazio, ma al tempo stesso vorrei chiedervi di postare richieste di ricette o di approfondimenti direttamente in questo blog.
In ogni caso la ricetta:
Gravad laks (danese) o gravlaks (svedese)
Per un filetto di 1 kg
90 g di zucchero
80 g di sale
30 g di aneto tritato
Per la salsa:
1 cucchiaino di aceto di vino bianco o di mele
1 cucchiaino di zucchero
3 cucchiai di senape di Digione
5 cucchiai di olio di oliva
1 rametto di aneto
Miscelate lo zucchero e il sale e distribuiteli uniformemente sul filetti di salmone disposto sopra una teglia o un piatto da portata con la pelle rivolta verso il basso. Conservate il filetto in frigorifero per 12 ore, quindi voltatelo e lasciatelo marinare per altrettanto tempo. Lavate il filetto, asciugatelo e cospargerlo con l’aneto tritato finissimo.
Per preparare la salsa stemperate lo zucchero in una ciotola con l’aceto, unitevi la senape, mescolate, versate l’olio a filo battendo con una frusta in modo da ottenere una salsa che abbia la stessa consistenza della maionese.
Ovviamente le quantità di sale e zucchero e il tempo di marinatura variano in dipendenza del peso del salmone. Intendete quindi il filetto di un chilogrammo come unità di misura.
Apprezzo ovviamente qualsiasi commento

domenica 3 gennaio 2010

comporre un menu

Menu
Prima di parlare di cene ed eventi gastronomici in genere, vorrei prima dire la mia sull’importanza del menu, ossia della scelta dei piatti che andranno a costituire un pranzo o una cena. Se abbamo amici a cena, spesso pensiamo di preparare i piatti che meglio ci riescono, oppure quelli cui siamo più affezionati, senza valutare se questi rappresentino una sucessione armonica. Ci preoccupiamo, nel caso di due portate, di far seguire al pesce la carne, senza entrare troppo nel merito se sia il caso, dopo il guazzetto di tonno, di servire il roastbeef all’inglese che ci riesce tanto bene, ma che ha un sapore meno aggressivo di quello della portata precedente.
Comporre un menu è cosa, almeno apparentemente, alquanto semplice.
L’impresa diventa più complessa se precisiamo che la sequenza delle portate deve essere armoniosa, ossia ogni piatto deve preparare a quello successivo per permettere di gustarlo nel miglior modo.
Diversità tra impostazioni...
Vi sono due “scuole” di pensiero in merito: la prima, potremmo definirla classica, stabilisce che i piatti devono essere serviti in maniera da costituire un crescendo di sapori, ossia dal più delicato a quello maggiormente corposo; la seconda basa l’armonia sul contrasto, o per parafrasare Eraclito, dal contrasto nasce armonia, intervallando piatti di diversa intensità così da mantenere il gusto ben desto. Per l’ipotesi classica occorre cioè tener conto dell’intensità dei cibi e pertanto è consigliabile partire da piatti leggeri per non dover proporre preparazioni molto saporite già alle prime portate. Ciò perché al cotechino per antipasto in un menu con sapori crescenti, occorrerebbe far seguire un primo piatto più saporito, come per esempio tagliolini al sugo di stracotto. La seconda portata dovrebbe essere ancora più intensa e ciò significa che il menù sarà corto, vale a dire costituito da poche portate, in quanto non si può caricarlo più di tanto di sapori senza appesantirlo in modo eccessivo. Volendo cominciare con sapori intensi, soprattutto se intendiamo proporre un menu lungo, ossia composto da molte portate, è preferibile adottare una sequenza di piatti basata sul contrasto: alla saporita portata iniziale segue un piatto più leggero, in modo da permettere al gusto di riposare, di ricomporsi, e di meglio apprezzare i piatti che seguiranno. Ciò ovviamente non significa che questi si alternano a caso. Se per esempio al citato cotechino facciamo seguire le acciughe crude all’aceto, il piatto innanzitutto è sì meno corposo, in conformità al menu dell’alternanza, ma ha l’acidità capace di compensare e di pulire il gusto dalle componenti grasse della portata precedente. Se, però, alle acciughe facessimo seguire un’altra preparazione acida come un carpione, allora non si avrebbe il contrasto riequilibrante, ma una sequenza acida che condizionerebbe il gusto facendogli perdere sensibilità. Per contro se dopo le acciughe proponessimo un risotto mantecato, dal gusto morbido grazie alla dolcezza del burro, e alle note di latteria, oltre che sapide, che conferisce il grana, il gusto, “resettato” grazie alle acciughe, dalle note grevi del cotechino, potrebbe allora assaporare pienamente il risotto. In realtà anche l’impostazione classica adotta talvolta questi principi in quanto introduce alcuni escamotage, ossia i “riposa gusto” seguendo la logica dei menu basati sul contrasto. Per esempio se dopo i taglioini al sugo di stracotto proponessimo un’insalata condita con vinaigrette, o un sorbetto al limone, questa rinfrescherebbe il gusto, lo azzererebbe del sapore della portata precedente e permetterebbe di continuare con piatti più delicati, per proseguire come meglio si crede, in un lento crescendo. Si tratta, cioè, di introdurre un elemento di contrasto, spezzando la successione classica, per poi riprenderla. Bè, per il momento chiudo qui, ma mi interessaa il vostro parere. Volendo possiamo approfondire spiegando che per entrambe le scuole non va proposto lo stesso metodo di cottura più volte, ossia a un branzino lessato non potrà far seguito una gallina bollita, ma una preparazione cotta al forno, alla griglia, in umido. Inoltre, non devono ripetersi alcune preparazioni anche se cucinate in modo diverso: se serviamo un soufflè di scampi, non proporremo per dessert un soufflè, poniamo, al cioccolato. Va da sé, che salvo eccezione come nel caso dei tartufi, uno stesso ingrediente, sia pur cucinato diversamente, non deve apparire più volte a tavola e pertanto se abbiamo servito salmone affumicato per antipasto, questo pesce non dovrà essere proposto, per esempio bollito, in un’altra portata….eccetera… eccetera

venerdì 1 gennaio 2010

Primo dell'anno, primo giorno del blog

Con l’inizio del nuovo anno ho deciso di aprire un blog.

Lo inauguro oggi, appunto. Auguri! A me e a tutti voi.

E’ un blog che tratta di vini e cucina, ma dai più svariati punti di vista.. oltre a quelli classici, mi interesano gli aspetti scientifici, filosofici e conviviali, compresa la narrazione del cibo e il suo essere anche linguaggio.

Ma per tutto questo ci sarà tempo.. stasera vi dico solo che ieri ho preparato la cena dell’ultimo dell’anno per una decina di amici. Era San Silvestro... insomma Capodanno! I piatti dovevano essere speciali, ma la richiesta era che fossero anche leggeri… contraddizione in termini.

Alla fine ho optato per questo menu:

• assaggi di antipasti: filetto di salmone gravad laks; mezzi paccheri farciti con tartare di salmone e variamente guarniti (ossia con mezzo cucchiaino di caviale, con altrettante uova di salmone, con uno scampetto sgusciato, o con uno stato di bottarga di muggine). Crema di baccalà (non brandade…), servita fredda, ottenuta frullando il pesce bollito per pochi minuti con abbondante olio extravergine di oliva.

• primo: vellutata di porri, patate, carciofi e topinambur

• secondi: tagliata di pesce spada alla senape e naturalmente l’irrinunciabile cotechino con lenticchie di Castelluccio.

Vini: Franciacorta di varie case, tra le quali tre indimenticabili bottiglie di Annamaria Clementi della Ca’ del Bosco del 2002.






Oggi, nonostante la ricca cena, ci sentiamo tutti molto leggeri. Stasera, inaugurando questo blog, faccio un brindisi all’anno nuovo, e a tutti voi che prima o poi passerete di qui, con uno straordinario vino bianco friulano: Terre Alte di Livio Felluga. Auguri!